sabato 2 novembre 2013

Impressioni da Tel Aviv

Mercato delle Pulci di Carmel - Tel Aviv


Tel Aviv, vista dal basso, sembra il Vedado. Vista dall’alto sembra Miami. Vista da destra sembra il paradiso, da sinistra l’inferno. E da dentro, da dentro non assomiglia a nessun’altra città al mondo. Case bianche e squadrate, Bauhaus le chiamano, a me sembrano casette della lego. Case bianche, squadrate e che avrebbero bisogno di una risistemata. Palme e piante rampicanti di specie ignota divorano lo spazio tra un edificio e l’altro, le foglie si accumulano sui marciapiedi, la vegetazione copre i condizionatori, le persiane penzoloni, le bandiere stracciate alle ringhiere, i sofà posteggiati sui balconi. I boulevards hanno due corsie: una per i pedoni e l’altra per le bici. Inevitabilmente, gli uni invadono lo spazio delle altre, e i ciclisti passano la giornata pedalando e suonando il campanello, suonando il campanello e pedalando, ma non fanno molto per scansare l’ostacolo, come se non avessero ben appreso l’uso del manubrio. Gli Israeliani amano suonare il campanello, o il clacson, se sono in macchina. Il fervore e la frequenza con la quale lo fanno fa pensare che siano un popolo molto cosciente dei propri diritti: questa strada è mia, lasciami passare, sembrano dirti. Ti ho detto di lasciarmi passare. Beeep!

Altra impressione delle prime 24 ore nella terra promessa è che gli Israeliani siano gente molto pratica, che non perde tempo in sciocchezze, quindi vive in modo spartano, sportivo e sano. Ogni mattina c’è traffico sul lungomare di lunghe assi di legno polido dalla salsedine: centinaia di persone corrono, a piedi o in bicicletta, lungo i sei chilometri che separano l’antica città di Giaffa dalla moderna Tel Aviv. I podisti sfoggiano scarpe all’ultimo modello, tutine aderenti e iPhone legato al braccio, gli auricolari a ondeggiare al vento. I ciclisti possono pedalare con i piedi o con le mani, con speciali biciclette da utilizzare sdraiati. Hanno caschi, occhiali da sole sagomati a specchio, abbronzatura da fine estate, e si dirigono tutti ai bar intorno al mercato del molo: succhi di frutta freschi, thé e caffé accompagnati da pani dolci e salati, tortine e pasticcini. Discutono animosamente in una lingua roca, intervallata da aspirazioni e cupe schiarite di gola e dove le vocali la fanno ancora da padrone sulle sorde e sulle sonore: Shalom (Ciao, Buongiorno, Arrivederci), Shabbath Shalom (Buon fine settimana),Todá (Grazie), Todá Rabá (Grazie a te), Sababa (Figo!).

Mi piace la gente, c’è tutto il mondo qui: il recepcionista dell’albergo si chiama Barack e sembra arabo, anche il ragazzo della trattoria di cibi pronti sembra arabo, ma poi risulta che è argentino, che sia chiama Daniel ma che tutti qui lo chiamano Alejandro. Invece Yoval ha i capelli rossicci e la pelle chiara, vende gioielli artigianali all’angolo tra la Dizengoff e la Rotschild ed è nato e cresciuto a Tel Aviv. Soleil, oltre che bella e formosa, è israeliana anche se ha un nome francese ed Elazar, ebreo americano, ha vissuto a New York, ha insegnato a Catania, ha pubblicato 25 libri di poesia e ora vende macchine fotografiche d’occasione al mercato delle pulci di Dizengoff Kikar (piazza). Sarà un’impressione, ma qui ti sembra di stare a casa, che ti conoscano da sempre, e che tu gli piaccia. La gente si guarda ancora negli occhi quando si incrocia per la strada, correndo sul lungomare o sulla spiaggia, in passeggiata. Donne con uomini, uomini con uomini, donne con donne, tutti incrociano gli sguardi come lanciassero dardi e gli unici ai quali non gliene frega nulla sono i bambini, i gatti e, apparentemente, gli ebrei ortodossi, che ti guardano soltanto quando vogliono venderti articoli religiosi, sennò filano via diritti come i fusi, lo sguardo a terra e la mente altrove. 

La gente ama parlare e approfitta ogni occasione per farlo: al mercato, davanti alla bancarella dell’antiquario, o uscendo da un bar, al supermercato o sulla piazza principale, mentre stai scattando le foto, si ferma sempre qualcuno e ti rivolge qualche parola in ebreo, poi in inglese e via di seguito fino a che non trova la tua lingua, che di sicuro conosce almeno un po’. Adorano sapere da dove vieni, che cosa ci fai a Tel Aviv, per quali imperscrutabili vie sei giunto fino a loro e se ti piace Israele: e come può non piacerti, visto che qui non c’è nessun problema? Poi ti danno indicazioni contraddittorie per andare a Gerusalemme, ti aiutano, carta geografica alla mano, a schivare i territori occupati per andare sul Mar Morto, e ti suggeriscono di evitare di muoverti il venerdì, no il sabato, vabbé, meglio muoversi direttamente di domenica. 

Al tramonto del venerdì inizia lo Shabbath, festa religiosa ebraica, durante la quale chiudono i negozi, si fermano i mezzi pubblici e la vita in città si fa silenziosa e tranquilla. Non sembra la stessa Tel Aviv di ieri, quella che oggi ti si presenta davanti agli occhi: rilassata, svuotata dal traffico e calma, è il territorio delle famiglie che passeggiano con i loro cani, dei turisti che sperimentano le biciclette in affitto e degli anziani che passano il giorno sulle panchine, come da qualsiasi altra parte del mondo. Anche qui, come a Belgrado, come ad Atene, nei parchi i tavolini hanno disegnate le scacchiere, e i giocatori si dfispongono ad iniziare una sfida lenta e rilassata, con il caffé del baretto alternativo e il timer. Anche qui si spingono carrozzine, ma di tessuto tecnico, e i tricicli hanno il cellulare incorporato. Mamma e papà vanno in scarpe da tennis tutto il giorno e sono giovani, belli e moderni. L’esercito, obbligatorio durante tre anni per i ragazzi e due anni per le ragazze, forma gli spiriti e i corpi, e si rispecchia nell’attitudine disciplinata del popolo israeliano, salutista, sportivo e costantemente pronto alla guerra. Inevitabile il paragone con Cuba, militarizzata, salutista a suo modo e a suo modo disciplinata: squadrato, spettinato ed esuberante, shabby senza essere mai stato chic e autosufficiente in quanto alla tristezza, il Mediterraneo orientale ha molto a che vedere con La Habana. Sono città fatte di spuma di mare, che tenta invano di abbracciare la terra, che lascia sui muri graffiti a forma di sirena. 


Il traffico, il vociare della gente e i clacson annunciano la fine dello Shabbath. Aprono i negozi, la gente si riversa nelle arterie illuminate e persino gli aerei riprendono a volare. I ristoranti, i bar, i chiringuitos sollevano le saracinesche e si popolano di gente. È di nuovo rumore, ed è l’inizio di un’altra settimana a Tel Aviv. Shalom!